sabato 30 luglio 2016

RACCONTO: ANALISTA


Cassettoni. Un soffitto a cassettoni.
Il soffitto dello studio della dottoressa Magnusson.
Sono sdraiato sul proverbiale divanetto in pelle testa di moro.
È comodo. Molto più comodo del divano che troneggia nel salotto del mio appartamento.
Sto sudando. La camicia ormai è un tutt’uno con la giacca.
Avrei dovuto accettare l’invito della dottoressa di togliermela e riporla sull’appendiabiti.
Solitamente mi siedo sulla poltroncina di velluto rosso, quella posizionata proprio di fronte alla sedia della dottoressa, dalla quale riesco a vedere perfettamente le sue espressioni facciali e qualche volta riesco addirittura a sbirciare qualche suo appunto.
Oggi però voglio meno contatto visivo possibile, per questo il divanetto mi sembrava l’ideale.
Non ne sono più così sicuro.
Non sono a mio agio e ovviamente lei se né accorta.
Proprio quello che non volevo.
La saliva scarseggia, così come il coraggio dei miei pensieri.
Entrando mi ha chiesto come stavo, come se fosse una domanda dalla facile risposta.
Anche oggi me ne andrò senza averglielo detto.
Come sempre non troverò il momento giusto. 
Come se esistesse il momento giusto per dire alla vostra analista che vi siete innamorati di lei.
Mi chiede di raccontarle la mia settimana e, mentre parlo della mai vita vuota e senza significato, l’unica cosa a cui riesco a pensare è a quanto mi piacerebbe che fosse lei a parlarmi della sua, di settimana.
La scelta del divanetto tuttavia mi preclude la vista delle sue gambe.
Non posso vedere quando, deliziosamente, si morde il labbro superiore mentre le racconto dell’odio che provo per il mio lavoro.
L’unica vista possibile è il soffitto a cassettoni.
Non lo avevo mai notato. Ora che faccio attenzione non mi ero mai nemmeno reso conto che il suo studio ha dei soffitti veramente alti. Saranno almeno 4 metri. Forse è la prospettiva del divanetto a ingannarmi. Forse sdraiato sui miei problemi il mondo esterno (compreso il soffitto) mi sembra così grande e invincibile.
Ho finito di elencarle le poche cose fatte negli ultimi sette giorni.
Ora siamo in silenzio. Adoro questi momenti.
Sembra che non esistano. Sembra che la sua laurea in psicologia le dia il potere di fermare il tempo.
Non la vedo ma nella mia testa riesco ad immaginarmela mentre con la mano destra si sfila gli occhiali neri e, mentre pensa alla prossima domanda da farmi, mordicchia la stanghetta già consumata da quel tic nervoso.
Mi chiede se c’è qualcosa che mi preoccupa.
Potrebbe essere il mio momento. Se non ora quando.
Le dico che ultimamente fatico a venire alle sedute. Tento di stare sul vago.
Alla sua richiesta di spiegazioni le confesso il mio tranfert.
Mentre parlo mi rendo conto di essere un cliché. Sarei stato meno banale solo se da ragazzino mi fossi innamorato della professoressa di matematica.
Mi vergogno. Non posso crede di essermi ridotto così in basso.
Sono sul punto di alzarmi e andarmene. Ho paura a girarmi.
Non voglio vedere la sua reazione. Non voglio neanche sentirla.
Come un bambino mi tappo le orecchie con le mani.
Visto dall’esterno devo essere uno spettacolo a dir poco ridicolo.
Un trentenne sdraiato sul lettino del terapeuta con gli occhi chiusi e le mani sulle orecchie.
Un uomo finito. Un perdente senza speranze impreparato ad assistere al suo ennesimo fallimento.
Rivivo in un attimo tutte le occasioni mancate della mia esistenza.
Tutti i miei rimpianti allineati, lì vedo chiaramente.
L’unica consolazione è che questo non potrà rimpolpare quella schiera. Nel bene o nel male questa volta ho fatto la mia scelta. Mi sono esposto.
È soprattutto merito suo se sono riuscito a trovare il coraggio per fare una cosa del genere.
Forse questo è addirittura lo scopo finale della mia terapia.
Anche se dovesse rifiutarmi, so di essere cresciuto. Ho superato uno scoglio.
Ora sono un uomo diverso.
Ad un certo punto la sento avvicinarmisi.
Mi toglie le mani dalle orecchie.
Apro gli occhi, è davanti a me. Si slega i capelli e mi bacia.
Con un unico gesto ha cambiato la mia vita.
Ha permesso ad un umile bruco di diventare finalmente farfalla.
Mi ha salvato. Solo lei poteva.
La felicità mi pervade. Non sono abituato, potrei farci l’abitudine però.

Mi sveglio. Sono tutto sudato nel mio letto.
Oggi non le ho detto niente, come al solito.

La vita fa schifo, come al solito.


Cantoni Marco

venerdì 22 luglio 2016

RACCONTO: LETTO CALDO


Lenzuola umide. Caldo tropicale.
Corpi sudati  distesi sul materasso.
La guardo con la testa appoggiata di lato sul cuscino.
Lei è nuda, come del resto lo sono anch’io.
I capelli arruffati hanno perso la piega e dolcemente ricoprono le sue spalle dorate.
La pelle è lucida, preziosa. Gli occhi chiusi, per farsi ammirare.
Le passo il dorso della mano destra sulla guancia appannata.
Lentamente le palpebre si schiudono, liberando due gemme preziose.
Sbatte le ciglia come se veramente l’avessi svegliata. Mi guarda e un brivido mi attraversa la schiena.
Solleva la testa con il braccio destro e non dice una parola. Il silenzio che ci avvolge mi ronza nelle orecchie.
-Perché mi guardi? – mi chiede sapendo già la risposta.
-Perché no? –tento inutilmente di sorprenderla.
La sicurezza nei suoi occhi mi mette in crisi. Mi mette in una situazione a me nuova.
Lei sembra sempre a suo agio, soprattutto quando non lo è.
Si gira a pancia in giù. Liberando le curve perfette del suo corpo scolpito.
Non ho mai visto una donna del genere.
-Sei bellissima – non riuscendo a dire niente di meno banale.
Lei mi si avvicina, appoggia le sue labbra al mio orecchio e ci sussurra dentro:
-Dimmi qualcosa che non so.
Bellezza e consapevolezza le armi più potenti nella nostra società.
Per lei niente e nessuno è irraggiungibile. Nessun ostacolo troppo grande.
Tra i tanti ha scelto me. Perché? Ancora me lo chiedo.
La domanda mi assilla, consumandomi nel profondo.
Non ho soldi, non ho potere, non ho niente.
Non sono particolarmente bello, né ho talenti fuori dall’ordinario.
Sono un middle man. Anzi sono la quinta essenza dell’uomo medio.
Se alle Olimpiadi dovesse gareggiare la squadra dei middle men, io sarei senza ombra di dubbio il porta bandiera.
Forse è uno scherzo. Forse ha sbagliato persona. Forse è tutto un equivoco.
Non so come sia possibile, ma fortunatamente il mio pessimismo mi rende immune alle cattive sorprese, al costo di non sapermi godere quelle buone.
La guardo negli occhi cercando risposte. Niente.
Lei mi sorride, sembra felice. Anzi annoiata.
Allunga il braccio sinistro e afferra sul comodino un pacchetto di Davidoff.
Se ne infila una tra le labbra e la accende.
Proprio in questo momento mi ricordo che siamo nella sua camera di albergo.
Non me lo ricordavo. Ieri sera ho esagerato con il bere.
Espira grandi boccate di fumo.
Il fumo che si mischia all’umidità dell’aria, dovuta al caldo di un agosto da record, crea una ambiente quasi esotico.
Le pareti si allontanano e i contorni sbiadiscono.
Torno ad ammirare il suo corpo adagiato con sicurezza disarmante.
Sono felice. Conosco questa donna da poche ore, e a dire il vero in questo momento mi sfugge il suo nome, ma non mi importa.
Per la prima volta nella mia vita mi sento libero.
Senza costrizioni. Senza regole. Senza impegni.
Nessuno mi dice cosa devo fare. Nessuno programma la mia vita.
Siamo io e lei in un letto e niente, tranne il fumo, intorno a noi.
La sigaretta è a metà. La cenere cade sulle lenzuola di seta.
Cerco di ricordare cosa ci siamo detti la sera prima.
Come ho fatto ha convincerla a farmi entrare nella sua camera?
Niente. I ricordi sono confusi. Pochi flash non ben ordinati.
Strano che il gin mi abbia fatti questo effetto. Non sono un novellino in quel campo.
La testa mi scoppia.
Questo mi ricorda quando da giovane mi svegliavo dopo una serata con gli amici.
L’alcol, la musica e qualche droga. Non che ne abbia fatto grande uso.
Saranno anni che non mi faccio una canna.
La sigaretta è finita. Si piega verso il comodino, dove spegne il mozzicone nel portacenere di cristallo.
Si gira verso di me e continua a sorridere. Ha un sorriso contagioso.
Credo di non essere mai stato così felice in vita mia.
-Sai a me piace sempre fumarmi una sigaretta prima di farlo- mi dice.
-Pensavo lo avessimo fatto stanotte – rispondo perplesso.
Sorride: -Infatti non mi riferisco al sesso.

Alza il suo cuscino e l’ultima cosa che vedo è la canna di una pistola.

Cantoni Marco