Cassettoni. Un soffitto a cassettoni.
Il soffitto dello studio della dottoressa Magnusson.
Sono sdraiato sul proverbiale divanetto in pelle testa di
moro.
È comodo. Molto più comodo del divano che troneggia nel
salotto del mio appartamento.
Sto sudando. La camicia ormai è un tutt’uno con la giacca.
Avrei dovuto accettare l’invito della dottoressa di
togliermela e riporla sull’appendiabiti.
Solitamente mi siedo sulla poltroncina di velluto rosso,
quella posizionata proprio di fronte alla sedia della dottoressa, dalla quale
riesco a vedere perfettamente le sue espressioni facciali e qualche volta
riesco addirittura a sbirciare qualche suo appunto.
Oggi però voglio meno contatto visivo possibile, per questo
il divanetto mi sembrava l’ideale.
Non ne sono più così sicuro.
Non sono a mio agio e ovviamente lei se né accorta.
Proprio quello che non volevo.
La saliva scarseggia, così come il coraggio dei miei
pensieri.
Entrando mi ha chiesto come stavo, come se fosse una domanda
dalla facile risposta.
Anche oggi me ne andrò senza averglielo detto.
Come sempre non troverò il momento giusto.
Come se esistesse il momento giusto per dire alla vostra analista
che vi siete innamorati di lei.
Mi chiede di raccontarle la mia settimana e, mentre parlo
della mai vita vuota e senza significato, l’unica cosa a cui riesco a pensare è
a quanto mi piacerebbe che fosse lei a parlarmi della sua, di settimana.
La scelta del divanetto tuttavia mi preclude la vista delle
sue gambe.
Non posso vedere quando, deliziosamente, si morde il labbro
superiore mentre le racconto dell’odio che provo per il mio lavoro.
L’unica vista possibile è il soffitto a cassettoni.
Non lo avevo mai notato. Ora che faccio attenzione non mi
ero mai nemmeno reso conto che il suo studio ha dei soffitti veramente alti.
Saranno almeno 4 metri. Forse è la prospettiva del divanetto a ingannarmi.
Forse sdraiato sui miei problemi il mondo esterno (compreso il soffitto) mi
sembra così grande e invincibile.
Ho finito di elencarle le poche cose fatte negli ultimi
sette giorni.
Ora siamo in silenzio. Adoro questi momenti.
Sembra che non esistano. Sembra che la sua laurea in
psicologia le dia il potere di fermare il tempo.
Non la vedo ma nella mia testa riesco ad immaginarmela
mentre con la mano destra si sfila gli occhiali neri e, mentre pensa alla
prossima domanda da farmi, mordicchia la stanghetta già consumata da quel tic
nervoso.
Mi chiede se c’è qualcosa che mi preoccupa.
Potrebbe essere il mio momento. Se non ora quando.
Le dico che ultimamente fatico a venire alle sedute. Tento
di stare sul vago.
Alla sua richiesta di spiegazioni le confesso il mio
tranfert.
Mentre parlo mi rendo conto di essere un cliché. Sarei stato
meno banale solo se da ragazzino mi fossi innamorato della professoressa di
matematica.
Mi vergogno. Non posso crede di essermi ridotto così in
basso.
Sono sul punto di alzarmi e andarmene. Ho paura a girarmi.
Non voglio vedere la sua reazione. Non voglio neanche
sentirla.
Come un bambino mi tappo le orecchie con le mani.
Visto dall’esterno devo essere uno spettacolo a dir poco
ridicolo.
Un trentenne sdraiato sul lettino del terapeuta con gli
occhi chiusi e le mani sulle orecchie.
Un uomo finito. Un perdente senza speranze impreparato ad
assistere al suo ennesimo fallimento.
Rivivo in un attimo tutte le occasioni mancate della mia
esistenza.
Tutti i miei rimpianti allineati, lì vedo chiaramente.
L’unica consolazione è che questo non potrà rimpolpare
quella schiera. Nel bene o nel male questa volta ho fatto la mia scelta. Mi
sono esposto.
È soprattutto merito suo se sono riuscito a trovare il
coraggio per fare una cosa del genere.
Forse questo è addirittura lo scopo finale della mia
terapia.
Anche se dovesse rifiutarmi, so di essere cresciuto. Ho
superato uno scoglio.
Ora sono un uomo diverso.
Ad un certo punto la sento avvicinarmisi.
Mi toglie le mani dalle orecchie.
Apro gli occhi, è davanti a me. Si slega i capelli e mi
bacia.
Con un unico gesto ha cambiato la mia vita.
Ha permesso ad un umile bruco di diventare finalmente farfalla.
Mi ha salvato. Solo lei poteva.
La felicità mi pervade. Non sono abituato, potrei farci
l’abitudine però.
Mi sveglio. Sono tutto sudato nel mio letto.
Oggi non le ho detto niente, come al solito.
La vita fa schifo, come al solito.
Cantoni Marco