Sono seduto su una panchina metallica alla periferia di una
piazzetta isolata.
Cerco riparo dal sole, inutilmente.
L’ulivo che dovrebbe
farmi ombra ha deciso di diventare ebreo e di prendersi il sabato come giorno
libero.
Alla mia sinistra passa un’anziana coppia.
Lui porta la spesa nella retina con la mano destra. Hanno il
passo svelto.
Parlano del fatto del giorno, o piuttosto di quello che era
ieri il fatto del giorno.
La vignetta satirica della rivista Charlie Hebdo il cui
soggetto è il recente terremoto che ha colpito il centro Italia.
Un anno fa eravamo tutti Charlie, ma dopo questo sgarbo la
pancia del popolo ha deciso che, alla fin fine, si sono meritati di essere
uccisi dai terroristi.
Sulla panchina al centro della piazza, vicino alla strana
scultura che troneggia indisturbata, ci sono due ragazze.
Non so dare l’età alle persone. Credo siano più giovani di
me, oppure semplicemente più spensierate. Impugnano entrambe il loro
smartphone.
Una è bionda e, logicamente, l’altra è mora.
Ma la mia attenzione viene rapita da una mamma che fa
pisciare la figlia piccola nell’aiuola in mezzo alla piazza affollata.
La
solleva e le tiene le gambe aperte, mentre la piccolina espleta il compito.
Finita la minzione, come se fosse la cosa più normale del
mondo, la mette a terra, le tira su le mutandine, le riabbassa il vestitino e
mano nella mano si incamminano in chiesa per la messa.
Questa immagine potrebbe racchiudere integralmente la
cultura italiana.
Come mischiare sapientemente sacro e profano.
Le ragazze di prima sono sparite. Al loro posto ce ne sono
tre diverse.
Questa volta sono tutte more e il cellulare è uno solo.
Stanno guardando un video, probabilmente su youtube.
Sembra divertente dalle loro facce.
Guardandole meglio sono più piccole di quelle di prima,
troppo piccole.
Penso alla galera e a quanto non voglia andarci e quindi
sposto lo sguardo altrove.
Passa una volante della polizia, ultimamente sorvegliano il
centro. Viaggiano a paso d’uomo per le vie. A molti mette tranquillità, a me
tutt’altro.
Non ho mai amato le divise.
È mezzogiorno. La temperatura più da agosto che da
settembre.
Una ragazza esce da Tiger (negozio di cianfrusaglie
geniali). Si siede su una panchina in pietra. Incrocia le gambe e apre la busta
con i suoi acquisti. Negli occhiali a specchio arancioni vedo riflessa
l’immagine di un quaderno a righe.
Una mail sul mio telefono mi avvisa sull’uscita dei
risultati di un esame universitario che non sono andato a dare.
La ragazza continua a sfogliare il suo quaderno come si ci
fosse scritto sopra qualcosa.
Mi accorgo solo ora che a due metri da me, montato sopra un
palo, c’è un orologio.
Da quando sono seduto avrò guardato l’ora sul mio cellulare
almeno otto volte.
Mi alzo per il caldo eccessivo e mi incammino verso casa.
Circumnavigo il vallo dell’Arena per sfruttarne l’ombra.
In mezzo alla folla vedo a due passi da me un viso
conosciuto.
I miei neuroni sono lenti e non riesco ad associare un nome
alla faccia.
Lei mi guarda, mi sorride e continua per la sua strada.
Ora ricordo quel sorriso. Giulia, figlia di una mia insegnante
delle medie.
Ragazza simpatica. Mai più vista da allora.
La fame fa aumentare il mio passo.
Sguscio tra i branchi di turisti che tappezzano piazza Bra.
Mi infilo sotto i portici.
Qui sotto c’è un barbone che emana Tavernello da tutti i
pori che intona l’inno di Mameli a squarciagola ondeggiando.
Adoro questa città.
Uscendo dai portici schivo il fuoco incrociato delle
fotocamere dei turisti.
Da quando vivo qui sarò stato immortalato accidentalmente da
migliaia di sconosciuti.
Mi immagino la mia faccia conservata negli hard disk,
salvata nei cloud o addirittura stampata, incorniciata e appesa sulle pareti
delle case di sconosciuti in tutto il mondo.
Girando la chiave nella toppa del portone del palazzo in cui
abito ripenso ad Giulia e al suo sorriso.
Molti quando mi incontrano fanno finta di non avermi visto.
Esattamente come spesso faccio io.
Mi capita addirittura di imboccare vicoli e stradine per
evitare questi incontri.
Lei invece, con molta semplicità, mi ha sorriso.
Il motivo per cui, a volte,
non saluto le persone è che ad alcuni un semplice “ciao” non basta.
Vogliono fermarsi e iniziare un imbarazzante conversazione
tra due persone che non hanno niente da dirsi.
Odio questi momenti. Se tutti fossero come Giulia sarebbe
tutto più facile.
Non dovrei simulare delle chiamate improvvise per scrollarmi
di dosso questi conoscenti occasionali.
Il metodo Giulia, come è stato appena rinominato da me stesso,
risolverebbe molti problemi sociali.
Vedi qualcuno che conosci per strada ma con cui non vuoi
iniziare una conversazione?
Semplicemente gli sorridi.
Tu e lui sapete che entrambi vi
siete riconosciuti, nessuno dei due è stato maleducato nei confronti dell’altro
e la giornata può continuare serenamente.
Il metodo Giulia andrebbe insegnato nelle scuole.
Il metodo Giulia andrebbe insegnato nelle scuole.
Cantoni Marco