giovedì 16 marzo 2017

RACCONTO: IL VENDICATORE



Sono fuori dalla residenza dei coniugi Spina. In un borgo periferico fuori città. Il campanile della chiesa di quartiere ha appena suonato le dieci di sera. Il sottile freddo novembrino si fa vivo tramite un vento sostenuto. 
Mi sistemo il passamontagna e mi tuffo nel buio. Scavalco senza problemi il cancello in ferro battuto verniciato da poco di verde bottiglia. Ho studiato l’abitazione e non ho esitazioni. Percorro con passo felpato il lato ad ovest della casa, fino alla finestra da cui accederò. Controllo attraverso il vetro e la situazione è come da programma. 
I due sessantenni sono comodamente seduti sul divano a due posti al centro del salotto. Dalla finestra della cucina, dalla quale sto guardando posso vederli chiaramente. Forzo la finestra e con un unico movimento armonico entro nella stanza. 
La cucina è completamente avvolta nel buio, l’unica fonte luminosa è il piccolo display a sette segmenti del forno a microonde. Il rumore dei miei passi è coperto da un fastidioso rumore di fondo prodotto dal vecchio frigorifero. 
Sono sulla soglia del salotto. Bruno e Maria sono seduti al buio e le loro silhouette sono visibili grazie al cono di luce proveniente dalla tv Led da 32 pollici appesa alla parete. Indosso la maschera e faccio strisciare sotto al divano il vaporizzatore di acido cianidrico. Dopodiché mi siedo per terra, con la schiena appoggiata allo stipite della porta e aziono il congegno. Rimango lì, impassibile e fermo a godermi lo spettacolo. 
La stanza si riempie di fumo e nel giro di pochi minuti i coniugi Spina smettono di respirare. Con innaturale freddezza recupero il vaporizzatore e apro tutte le finestre della stanza. Esco da dove sono entrato e torno ad immergermi nella notte.
Non sono un professionista. Non vengo pagato per uccidere. Le miei motivazioni sono altre, più complicate, più profonde.
Non è la prima volta che uccido qualcuno. Potrei essere definito un serial killer, e in effetti è quello che sono. Ma questo non è il mio lavoro, è solo un hobby.

Sono seduto al mio bar preferito, quello dove consumo la colazione tutti i giorni da dieci anni. Sono un tipo abitudinario, preciso e scrupoloso. Segni premonitori dei miei comportamenti notturni.
Sono passati quattro giorni dalla morte dei coniugi Spina. Ovviamente la polizia non ha nessun motivo per sospettare di me. Non sono stato così stupido da lasciare tracce e certamente non ci sono collegamenti tra me e la coppia. A maggior ragione non esiste nessun tipo di movente. 
Ma i miei delitti non sono casuali, non agisco in preda ad un raptus. Tutte le miei azioni sono calcolate e programmate per tempo. La mia scrupolosità non si applica soltanto per quanto riguarda la scelta del cappuccino e cornetto.
Sto sfogliando la Gazzetta dello Sport e a qualche metro da me sento qualcuno che parla del delitto Spina. Non alzo lo sguardo ma continuo ad ascoltare. Una voce maschile afferma che l’assassino è senza ombra di dubbio il figlio della coppia. In questi casi è l’ipotesi più papabile. Una seconda voce, decisamente più anziana, appoggia l’ipotesi. I delitti di paese animano le conversazioni più del calciomercato. 
Non è la prima volta che tramite le miei azioni regalo a questi professionisti della chiacchiera materiale su cui discutere. Le prime volte mi faceva un certo effetto. Ora invece mi diverto. 

Dopo colazione, come consuetudine, mi dirigo verso il mio studio. Sono uno psicanalista, questo è il mio vero lavoro. Ho sempre pensato di voler aiutare la gente, e solo dopo alcuni anni ho capito che aiutare gli altri non mi bastava per sentirmi bene. Avevo bisogno di qualcos’altro, avevo una mancanza da colmare. Uccidere mi aiuta.
Entro nell’appartamento che uso per ascoltare i problemi degli altri e controllo chi è il prossimo paziente, il primo della giornata. 
Apro l’agenda e leggo il nome di Ezechiele. Un sorriso mi si palesa sulla faccia.
Ezechiele, ennesima vittima di un nome non convenzionale, soffre di attacchi panico. La causa principale è lo stress del lavoro, aggravato da una vita sentimentale complicata. Ezechiele è incapace di creare un rapporto solido con una donna e fatica a conoscere nuove persone. Per questo motivo, periodicamente, torna a frequentare le sue ex fidanzate, incapace quindi di staccarsi da un passato che rimpiange.
Dopo pochi minuti Ezechiele suona alla porta e lo faccio accomodare sul divano posto difronte alla mia poltrona preferita. 
Il divano su cui Ezechiele è seduto, è preoccupantemente simile a quello dove sono deceduti i coniugi Spina, divertente coincidenza.
Iniziamo a parlare, perlopiù io mi limito ad ascoltare. Questo è il mio compito. Forse è anche per questa passività congenita nel mio lavoro che mi sono scelto un hobby che mi permettesse di esprimere la mia creatività a pieno.
Mi parla dei suoi tentativi di migliorare la sua situazione e della sua settimana. Mi dice che è un periodo molto difficile per lui. Che non sa come andare avanti.
Penso a quanto la mia teoria sia corretta. Io infatti sono convinto che il nome che i nostri genitori scelgono per noi sia più importante di quello che si pensi. Nella mia esperienza lavorativa, molti sono i pazienti dotati di nomi non convenzionali che hanno problemi a relazionarsi con le persone. Un nome convenzionale aiuta a sentirsi accettati dal branco, al contrario di un nome particolare che, se il soggetto non ha una personalità proporzionata al nome che porta, può portare ad isolarsi o allo sviluppo di perdita dell’autostima. In più la scelta di un nome appariscente e forzatamente originale è sintomo del profondo egoismo dei genitori, che, come pavoni, vogliono attirare l’attenzione della società su di loro.
Ovviamente quando ho provato a parlare con qualche collega di questa mia teoria sono stato preso per pazzo. Ma tutti i grandi innovatori, all’inizio, sono stati considerati visionari.
La seduta continua ed Ezechiele mi rivela che i suoi genitori sono morti questa settimana, ed è per questo che per lui non è un periodo semplice.
Io faccio finta di non saperlo e snocciolo una serie di frasi da manuale per vedere la sua reazione a queste banalità. Voglio capire se le miei azioni dell’altra sera hanno portato al risultato sperato. 
Le sue risposte sono evasive, sembra sconvolto dalla morte dei genitori. Il suo attaccamento a loro era più forte di quello che credevo. Sfortunatamente penso di trovarmi di fronte ad un ennesimo fallimento. Ma io non demordo, per il bene della scienza devo continuare a provare. Inoltre non nascondo che oltre agli scopi accademici l’omicidio inizia a fare un effetto inaspettato su di me. Mi sento rinato, nonostante non abbia ancora quarant’anni, la routine quotidiana mi stava distruggendo. Questa mia vita notturna mi eccita. Mi considero una specie di giustiziere, un vendicatore mascherato.
La seduta volge al termine ed Ezechiele mi sembra più provato del solito. Gli prescrivo un antidepressivo.
“Il suo aiuto è prezioso dottor Secchi” mi dice Ezechiele Spina.
“Dammi del tu, alla fine siamo quasi coetanei” gli rispondo io.
“Grazie Nicodemo”.


Cantoni Marco