lunedì 28 marzo 2016

RACCONTO: TUM-TUM


Tum-tum    tum-tum   tum-tum
Le piccole gocce di condensa ricoprivano quasi completamente il vetro della finestra.
Il mondo esterno era celato ai suoi occhi. Un privilegio, quello di godersi il panorama, che qualche arcana forza della natura gli stava negando con una leggerezza quasi sadica.
Oppure era proprio il suo umore a creare delle simili paranoie.
Muovendosi come un leone in gabbia, copriva palmo a palmo i pochi metri quadrati in cui era rinchiuso. 
Non era claustrofobico. Non ancora almeno. 
Tuttavia quella condizione esistenziale iniziava ad amplificare il suo maldivivere come un megafono emozionale.
Tum-tum   tum-tum   tum-tum
La stanza era spoglia, triste e asettica nel suo sforzarsi di non esserlo. Alle pareti erano appese delle stampe incorniciate di famose opere d’arte.
Dei tristissimi girasoli di Van Gogh stampati su carta porosa che falsava completamente la resa cromatica. Circondati da una cornice in materiale plastico di color grigio topo.
Era schifato e allo stesso tempo attratto da quel abominio. 
Il suo sguardo stanco ma mai domo ciclicamente si posava su quel vaso di fiori. 
Non aveva mai avuto una passione particolare per l’arte. Né poteva vantare una conoscenza accademica particolarmente approfondita. E sicuramente in un'altra situazione non avrebbe mai fatto caso a quella stampa. 
Ma la vita ci mette di fronte a situazioni inaspettate ed è proprio per questo quel pomeriggio si trovava in quella sala d’attesa.
Tum-tum   tum-tum   tum-tum
La solitudine di quel luogo per lui era quasi un sollievo. 
L’eventuale presenza di altre persone in quel preciso momento e luogo, avrebbero raddoppiato la sua ansia crescente.
L’ansia era una sua prerogativa. Un fenotipo dominante che lo caratterizzava da sempre. L’ansia per lui era più un attitudine di vita, piuttosto che un fenomeno sporadico.
Un atteggiamento che con gli anni ti fai amico e con cui, a malincuore, impari a convivere. Come coinquilino però è molto fastidiosa. La devi conoscere. Ti ci vuole tempo per imparare i suoi ritmi. Devi studiarne gli orari e le abitudini preferite. Su alcune cose devi essere duro e intransigente, su altre invece devi scendere a patti e imparare a fartele piacere. I primi tempi vorresti cacciarla dalla tua vita e non vederla mai più, ma è l’atteggiamento sbagliato. Non devi prenderla di punta. Se la sfidi su quel campo, vincerà sempre lei. Devi essere più sottile, anche un po’ ruffiano. Devi corteggiarla, capire le sue ragioni e metterti nei suoi panni. A quel punto, quando senti di averla domata, puoi permetterti anche di accantonarla per brevi lassi di tempo. Se sei bravo lei ti lascerà i tuoi spazi ma non devi mai fargli credere che la stai battendo, deve essere lei che ti cede il posto. Questa pratica di amore-odio con l’ansia lui l’aveva capita bene. Era diventato un maestro ormai.
Ma nei momenti di debolezza, quando la vita di prende in maniera inaspettata alle spalle, l’ansia prevale sempre.
Quando le tue difese sono calate lei attacca.
Non per cattiveria nei tuoi confronti, ma perché è la sua natura.
Tum-tum   tum-tum    tum-tum
Coff coff
Con un colpo di tosse ricacciava in gola un rigetto di bile che dallo stomaco cercava di risalire in superficie. Come uno scalatore, che con tutte le forze rimaste,  vedendo già la cima del monte, si da lo slancio per completare il suo obiettivo.
Peccato che la vita è dura per tutti e lo è anche per quello scalatore gastrico che non riuscirà mai a godersi l’ambito panorama.
La situazione che lo costringeva tra quelle quattro pareti ocra gli era piombata addosso in modo inaspettato e doloroso.
Uno schiaffo in piena faccia che lo aveva svegliato da una esistenza onirica, non condizionata dalla presenza di altri esseri umani.
La sua sociopatia e conseguente eccentricità involontaria lo rendeva repellente agli altri più di quanto questi lo fossero nei suoi confronti.
Questo discorso però non valeva per Giulia.
Unica breccia in quella cortina di malessere con la quale si isolava dagli altri.
Una figura quasi mitologica e sicuramente unica nel suo genere che riusciva a scuoterlo e a renderlo una persona migliore.
Tum-tum   tum-tum   tum-tum
Il rumore costante delle pulsazioni cardiache era sempre più assordante. Capiva solo ora il motivo per cui il cuore aveva, nella nostra società, acquisito una dimensione metafisica e simbolica così elevata.
Riusciva per la prima volta a vederne il fascino.
Anzi a sentirlo, con le sue orecchie.
Un suono dolce e tremendo allo stesso tempo. Un ossimoro sonore che regolava la vita e la morte.
Ogni tum in più era un tum in meno.
Il cuore ha un numero finito di tum.
La vita umana ha un numero finito di tum.
Il tum è l’unità di misura della vita. Infatti sarebbe più sensato usare il tum per misurare il tempo.
Un clock di sistema che per lui diventava sempre di più un countdown.
Tum-tum   tum-tum   tum-tum
Se da un lato non riusciva a sopportare quel rumore ossessivo, dall’altro sperava non smettesse mai di risuonare.
Un po’ come la vita della quale tutti noi ci lamentiamo, ma che ovviamente non vorremmo finisse mai.
Pensando a questo si ripeteva in testa la famosa storiella di Groucho Marx utilizzata da Woody Allen nel prologo di “Io e Annie”.
“Due vecchiette sono ricoverate nel solito pensionato per anziani e una di loro dice: “Ragazza mia, il mangiare qua dentro fa veramente pena”, e l’altra: “Si, è uno schifo, ma poi che porzioni piccole!””.
In questa condizione psicologica che definire fragile era un eufemismo, si trovava ad aspettare in silenzio l’esito del calvario di Giulia.
Tum-tum   tum-tum   tum-tum
Ripensando alle ultime parole che le aveva rivolto, non trovava pace.
Una normale litigata, o forse l’apice di una relazione tra due opposti che nonostante e forse grazie a quelle liti si autoalimentava in una convivenza di 5 anni.
Ma alla luce di quello che era successo, le sue parole diventavano pesanti come macigni.
Le parole hanno quest’effetto. Il contesto ma soprattutto gli eventi le trasformano definitivamente in qualcosa di non preventivato ma tuttavia dannatamente reale.
Giocherellando con il bicchierino vuoto del tè al limone che aveva bevuto qualche minuto prima, pronunciava tra sé e sé il climax di quel invettiva con la quale aveva lasciato muta sul divano l’unica persona che aveva detto di amarlo.
Parole vuote. Parole inutili, come se ne dicono tante. Parole volatili e superficiali che probabilmente Giulia si era dimenticata l’attimo dopo averle ascoltate, ma che per lui erano una spada di Damocle.
La telefonata che gli era arrivata due ore prima, mentre era al lavoro, lo aveva fatto sprofondare in un abisso emotivo da quale non era ancora riuscito a risalire.
Eppure non poteva assumersi la responsabilità del colpo di sonno di un camionista negligente. Né della crepa termica della barriera protettiva che aveva agevolato l’urto tra il tir e la cinquecento di Giulia.
Nonostante ciò, per lui, questo era la punizione finale di una vita di nichilismo e egocentrismo.
La possibilità di perderla e la paura che questo comportava lo atterrivano.
Ma più di tutte queste cose lo terrorizzava il fatto che era da qualche minuto che non sentiva più il suono che prima riempiva quelle stanze.
Il mantra religioso al quale per la prima volta nella sua vita di ateo si appellava.
Una sensazione di vertigine lo avvolgeva e lo stritolava.
Sentiva dei passi nel corridoio. Ma non voleva conoscere la persona che calcava quelle scarpe, dal rumore troppo leggera per essere il medico che aveva intravisto un’ora prima.
Infatti quella che si sporgeva con la testa dalla porta era una donna.
Ma non la donna che avrebbe voluto vedere.
Non la sua donna.
Negli occhi aveva una tristezza sincera e reale.
La sentenza finale era l’ultimo atto del suo dramma interiore.
Giù il sipario.


Cantoni Marco

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